Riempivano i teatri a 20 anni, li riempiono ancora oggi, che di anni ne hanno 70.
Sono amici da quando avevano le braghette corte. La loro traversata dagli anni '60 a oggi ha un che di sovrannaturale: riempivano i teatri a 20 anni, li riempiono ancora oggi, che di anni ne hanno 70. Cochi e Renato sono come li vedi: in sintonia, anche nelle risposte, quando uno allunga e completa la risposta dell'altro. Amici si, ma indipendenti, si sono divisi professionalmente a fine anni '70: Renato ha fatto molto cinema, Cochi si è dedicato al teatro, per poi ritrovarsi a lavorare di nuovo insieme trent'anni dopo, affiatati come il primo giorno. "E' come andare in bicicletta", dicono. Un sodalizio che li rende il ponte più solido tra il cabaret di un tempo e quello di oggi, che li vede protagonisti in una tournée partita un mese fa dal Lazio che termina al Teatro Nazionale di Milano (dal 1 al 6 aprile).
Che amicizia è la vostra?
R. Siamo figli della guerra: Milano era stata bombardata e siamo scappati con le famiglie a Gemonio, sul lago di Varese. Ci siamo conosciuti che avevamo tre anni, ci siamo frequentati nel tempo con la compagnia del lago, con le feste da casa libera, con le fidanzatine. Poi abbiamo cominciato con la chitarra, le canzoni popolari, l'osteria milanese da dove passavano altri artisti come Jannacci, fino al Derby. Siamo come fratelli, ma con una grande indipendenza l'uno verso l'altro. E chi ha detto che abbiamo litigato per il cinema, ha sempre detto balle.
C. Siamo predestinati. Mio padre e suo padre erano amici prima che noi nascessimo, i fratelli di Renato e le mie due sorelle maggiori erano amici. Quante estati insieme, abbiamo fatto casini di ogni tipo...Poi, col tempo, abbiamo passato anche diversi mesi senza vederci, sentendoci al telefono solo poche volte.
Tanto cabaret insieme, il grande successo e... le strade professionali si dividono.
R. Quando mi hanno offerto di fare il primo film, da solo, era il periodo in cui facevamo "Canzonissima" insieme in tv. Ne ho parlato con lui: "Cochi, mi piacerebbe fare questa cosa, che dici?". Abbiamo fatto quadrare le date del film con la trasmissione, tornavo il fine settimana per "Canzonissima" e poi correvo sul set. Poi, come in tutti i mestieri, ognuno prende la sua strada. Anche Cochi ha fatto cose importanti, ha avuto la proposta di Lattuada per "Cuore di cane", è andato a vivere a Trieste con la sua donna e ha fatto molto teatro. Ma ci siamo sentiti con regolarità.
C. Io ho fatto soprattutto teatro di prosa, ho vissuto anche a Roma, lavorando con diverse compagnie romane. Un'altra strada, semplicemente. Ho fatto tv con Paolo Rossi in "Su la testa!" e poi Renato mi ha proposto di fare insieme una serie televisiva "Nebbia in Val Padana"...da lì abbiamo ripreso a lavorare insieme, fino a tornare sul palco.
Perchè il cinema insieme non ha funzionato?
R. La coppia è molto limitativa. Nel cabaret funzionava: eravamo freschi, moderni in un mondo difficile, in cui neanche avevamo teatri a disposizione! Ma il cinema è un'altra cosa. Qualcosa insieme abbiamo fatto, ma niente di strepitoso in effetti. C'è da dire anche che abbiamo detto no a cose che non ci convincevano.
C. C'era la mania delle coppie cinematografiche in quel periodo e noi non volevamo esserlo, tutto qui. Ci proponevano ruoli come il carabiniere e il prete...non ci andava. Nessun rimpianto.
Riprendere a lavorare insieme, dopo tanto tempo: difficile?
R. E' come andare in bicicletta: se hai imparato, sai pedalare. Noi siamo partiti dai nostri ricordi, dai nostri dialoghi lasciati in sospeso. Ci siamo riproposti con naturalezza.
C. Siamo cresciuti insieme: quando c'è questa amicizia antica, anche rivedersi dopo 20 anni è come essersi lasciati due minuti prima.
Anche le nuove generazioni vi seguono con entusiasmo e stupore.
R. Quando ci hanno chiamato a fare Zelig, in effetti ci siamo riconfermati. In quel contesto, anche in mezzo a tutti quei giovani, abbiamo colpito nel segno. Siamo anche stati fortunati, ma senz'altro gioca a favore la nostra comicità surreale. Non so se ci sia qualcuno oggi che si avvicini al nostro mondo...non vediamo nostri eredi, ammesso che ci sia qualcuno a cui interessi essere nostro erede!
C. Rappresentiamo probabilmente l'icona del cabaret più autentico degli anni 60 e 70, dove l'espressione del nostro lavoro era di una libertà forsennata, dove facevamo esperimenti di ogni tipo. Siamo rimasti dei casi unici e non essendoci successori, il pubblico giovane chiaramente si avvicina a questo tipo di teatro che altrove non si trova. Sta di fatto che facciamo sempre il tutto esaurito, abbiamo un seguito incredibile. Questo un po' ci ha meravigliati, ma ci ha anche confortato.
Il girovagare ha cambiato la vostra spiccata milanesità?
R. Mi sento sempre uguale. Vado sempre alla mia amata pasticceria Gattullo, dove sono di casa. Da quando è mancata mia moglie, qualche anno fa, cerco di andare avanti...ma non è semplice la vita nei posti che avevo vissuto con lei.
C. Sono uno dei pochi milanesi doc da generazioni: mia mamma parlava solo milanese, mio zio prete ha scritto un libro su tutte le chiese di Milano, mio nonno cantava alla Scala. Sono stato a Roma 30 anni, lavorando per il teatro di prosa e sono tornato a Milano lo scorso anno. Mi piace vedere la mia città in trasformazione; vedo che Milano si sta sviluppando in modo sereno, senza grandi fratture. Abito in un quartiere dove c'è integrazione con altre culture: vado dal mio giornalaio peruviano e scherziamo, sembra anche lui un milanese.
Renato, ti rivedi nei tuoi film?
R. Ci credi se ti dico che non mai avuto una videocassetta o un dvd dei miei film?
Poi io ho un rapporto stranissimo col cinema. Ci sono andato talmente poche volte che si contano sulle dita di una mano...addirittura uscivo a metà film. Mi capita che la gente mi fermi per strada e mi citi a memoria battute dei miei film, come quelle de "Il ragazzo di campagna". Ci sono due ragazzi miei fan che mi seguono, che raccolgono il materiale che mi riguarda. Un po' di tempo fa ho chiesto: "ma voi li avete tutti i miei film?". Dopo una settimana mi è arrivato un pacco di dvd...non li ho ancora guardati. Magari lo farò, anche se penso che a questo punto li lascerò ai nipoti!
E tu Cochi?
Me ne guardo bene! Capita che di notte, quando passa qualche cosa in bianco e nero, mi soffermi...mi fa un po' di tenerezza, ma non mi diverte. A volte rivederti è anche sofferenza: noi attori la vediamo in modo diverso, in fondo è rivivere un certo periodo con tutti pro e contro. Quando una cosa è fatta, è finita.
Un anno fa moriva Enzo Jannacci, una figura fondamentale per voi.
R. Un grande amico, un grande artista. Di lui non ho un ricordo tangibile, ma un'esplosione di emozioni di affetto profondo.
C. Di lui io invece ho un ricordo preciso: era il periodo in cui era già famosissimo e gli arrivavano tante offerte ben pagate per le serate d'estate nelle discoteche. Una sera eravamo insieme a strimpellare e gli arriva una telefonata: "Non posso venire, devo stare con Cochi e Renato". Quelli dall'altra parte chissà cosa pensarono...noi eravamo sconosciuti, ma lui preferiva stare con noi a divertirsi suonando la chitarra. Questo era Enzo.
Anche il Derby non c'è più. Ne avremmo ancora bisogno?
R. Erano altri tempi... Ora c'è qualcosa di simile, Zelig, con però l'aiuto non indifferente della TV. Per noi è stato molto più difficile.
C. E' indubbio che l'energia che usciva da quel posto aveva contagiato l'Italia: il sabato sera arrivava gente da tutta Italia. Mi ricordo il notaio di Montebelluna, ma anche tanti colleghi da Roma: Manfredi, Sordi, la Wertmuller, Tognazzi, Monicelli. Momenti esaltanti, ma non sono un nostalgico. Si guarda avanti.